La tentazione di fare il tema delle elementari dalla traccia scontata, per esempio "Dove ti trovavi e cosa stavi facendo il giorno dell'attentato al World Trade Center?" mi ha assalito oggi dopo aver visto in rete, al telegiornale e su vari social network, il ricordo di Giovanni Falcone a ventidue anni dalla sua tragica morte. Per qualche momento ho pensato a quel pomeriggio del 23 maggio 1992 aiutato dalla mia (fino ad oggi) immarcescibile memoria ho ricordato perfettamente alcune sfumature di quel giorno. Ventidue anni fa avevo diciasette anni e frequentavo la quarta superiore all'istituto per geometri e ragioneri, avevo perso un anno in prima superiore (quando ero iscritto a un istituto tecnico industriale) e fino ad allora avevo superato brillantemente ogni anno, un percorso netto impeccabile macchiato solo da un esame di riparazione in terza. Quel 1992 fu per me un anno da ribelle, le prime cazzate da adolescente mi tennero spesso lontano da scuola, accumulai un numero imbarazzante di assenze e fui bocciato meritatamente. Maggio era da sempre il mese in cui ero solito recuperare tutte le insufficienze, la mia fidanzata dei tempi che oggi è mia moglie mi aiutava in queste imprese disperate. Mi svegliavo di notte a studiare, al mattino presto ripassavo e mentre andavamo a scuola lei mi interrogava. Aveva già capito che non ce l'avrei fatta ma mi spronava a tentare il tutto per tutto. I professori invece avevano già preso la loro decisione. Verso le diciannove di quel 23 maggio mi trovavo a preparare l'interrogazione di matematica prevista per il mattino seguente. Seduto al tavolo rotondo che occupava l'angolo antico del grande salotto della casa in via Sacconi guardavo saltuariamente la televisione che, per concentrarmi, tenevo a volume spento. Mi accorsi che era successo qualcosa di tragico, mi sedetti in poltrona sbloccai il volume e rimasi per un po' a sentire le confuse ricostruzioni su quanto era accaduto al magistrato, sua moglie e la loro scorta.
Fui moderatamente scosso, le preoccupazioni e le mie ansie erano altre. Fu il giorno seguente
a far rendere conto me e tanti altri stupidotti come me concentrati solo su loro stessi e sui loro ormoni, che quella disgrazia era un fatto epocale e avrebbe rappresentato un crimine indelebile nella memoria di tutto il popolo italiano. La professoressa di matematica delle superiori si chiamava Indovina, era una palermitana emigrata al nord da giovanissima ma nonostante tanti anni passati in Brianza non aveva perso la sua cadenza dialettale.
Si presento' in classe come al solito, puntuale, vestita con un completo marrone e il registro sotto il braccio. Io ero tesissimo per l'interrogazione alla quale mi volevo sottoporre da volontario ma non ci fu il tempo di farle la proposta di recupero. La prof. si accomodo' in cattedra, quasi subito si alzo' fece il giro della scrivania guardandoci negli occhi uno per uno. Le sue parole furono: "ragazzi, è morto Falcone, nessuno fa niente, nessuno dice niente, ma vi rendete conto? Oggi non è un giorno dove si puo' fare finta che non sia successo niente." Fino ad allora la donna severa ed inflessibile che avevamo imparato a conoscere (ed anche ad apprezzare) con la sua cadenza soporifera e quel naso pronunciato per la quale la sfottevamo quotidianamente si mise a piangere. Non fu un pianto accennato, furono lunghissime lacrime di dolore sincero che gelarono tutta la classe e fecero capire a molti, me compreso, che quella tragedia, Falcone, sua moglie, la scorta e la nostra professoressa sarebbero rimasti per sempre nella nostra memoria.
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